giovedì 11 giugno 2015

capezzolo: linguaggio infantile/ teatro dell'assurdo

Questa mattina ho portato la bimba piccolissima, quella di due anni, al nido.
L'ho vestita con un vestitino corto blu a bollini rossi, e un maglioncino di cotone perché in bici la mattina presto fa ancora freddo.
Un trottolino morbidoso con i capelli più biondi che castani, tagliati a frangia dalla mamma, tipo elmetto.

Ora parla molto, ciangottando come un passerotto indecifrabile.
Felice di andare in bici, che pronuncia benissimo.
Alle mie domande "come va", risponde "mene".









Al nido incontro ravvicinato con un compagno di scuola. Accompagnato dal papà - sono sempre più numerosi questi papà che si occupano dei bimbi-, e impegnato anche lui nel rito del cambio-scarpe-con pantofole- da casa.

"Saluta la bimba"
"Tao"
Anche la mia bimba risponde "tao", e sorride, soddisfatta della conversazione, vagamente orientale.
"Come ti chiami?" Chiedo al bimbo.
"Tietto" "No, non ti chiami Pietro. Dillo bene come ti chiami."
Grande sorriso, poi la risposta inattesa, nitidissima:
"Capezzolo."
Padre esterrefatto e imbarazzatissimo, che ci riprova:
"Ma dove le prendi certe cose... Come ti chiami? Dillo bene"
"Capezzolo", e lo dice bene sul serio, con pronuncia perfetta. Come la mia bimba dice "patata".

Io sono deliziata, il bimbo entusiasta, la mia bimba con l'aria seria e intenta che inalbera quando segue una conversazione difficile, il papà vagamente scioccato.

Me ne sono volata via con la mia bici, soffocando l'urgenza delle risate. Anche adesso, se ci ripenso, mi metto a ridere.

Il mio sorriso quotidiano, oggi, vale almeno una settimana.

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