martedì 7 novembre 2017

il curaorecie

Non ho mai scritto di mia sorella.
Perché non volevo essere invadente. Trascinandola in una realtà virtuale che lei non ha cercato.
Ne parlerò appena un poco, come di un sogno, o di una nuvola, che non hanno contorni definiti.

Lei è una parte di me. Il mio ultimo pezzo di famiglia che mi ha vista bambina. È l'altra parte della mela, la faccia nascosta della stessa moneta.
Abbiamo condiviso l'infanzia, parlando lo stesso "lessico famigliare".
Io scatenata e senza pensieri. Lei seria, più timida, più riflessiva.

A lei piace scrivere. Ha l'animo della poetessa.
Fin da piccola si cimentava in novelle che rielaborava all'infinito, in successive stesure, spinta dall'insoddisfazione del perfezionista.
Ancora oggi non è mai contenta di quello che ha scritto. Deve limare, spostare quella virgola, cambiare un aggettivo, invertire una frase.

Alla decima versione dello stesso soggetto divento insofferente. Mi stufo. Le cito "il curaorecie", un suo racconto di cui ricordo il titolo, vagamente il testo, e soprattutto la rielaborazione e il rifacimento continuo.
"Il curaorecie" è diventato emblematico del suo infinito perfezionare. Fa parte del nostro lessico familiare. "Ancora col curaorecie!"Le dico.






























Ma non c'è verso. Anche se per me va bene così, e non c'è nulla da cambiare, lei vede le imperfezioni.
Devono essere macchioline nere che offuscano una visione immacolata.
Lei ha occhi grandi, color di foglia, che sanno vedere quello che per gli altri è inessenziale. 

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